Non Chiamateli Giochi: i Giochi con le Parole

07b7f-giochi_con_paroleDa qualche tempo impazza sugli smartphone e sui social-network un nuovissimo videogioco di nome Ruzzle, il quale ha letteralmente catalizzato le attenzioni e le energie degli internauti. Come spiegare questo fenomeno? Puro passatempo, inutile perdita di tempo o effimera moda passeggera? Nulla di tutto ciò. La parola si presta da sempre ad essere impiegata in maniera ludica, come utile strumento per allenare la mente nonché come momento di svago produttivo. Il ricercar risposte con le relative soluzioni allena la mente al ragionamento e attiva un percorso logico tipico del metodo deduttivo, proprio del problem solving, I giochi linguistici sono, tra l’altro, un facile espediente per diffondere la didattica ludica a scuola.
Sono giochi linguistici tutti quelli il cui meccanismo principale agisce sulle parole, sfruttandone o modificandone l’ortografia o cambiandone il senso generale. Alcuni studiosi distinguono i “giochi di parole”, basati sulle strutture verbali, che trovano applicazione tanto nell’enigmistica quanto nei doppi sensi, cambi, sciarade e via dicendo, dai “giochi con le parole”, intesi come quelli in cui si manipolano gruppi di vocaboli senza intervenire sul loro senso o nell’ortografia. I giochi con le parole possono facilmente essere sperimentati e sviluppati con successo in contesti ricreativi o scolastici, attraverso molteplici approcci di tipo interdisciplinare.
Ispirato ai più famosi giochi da tavolo Boggle e Scrabble, Ruzzle è basato su un sistema di sfide online: per iniziare una partita il giocatore deve trovare un avversario da sfidare, scelto casualmente dal sistema fra gli utenti online o da una lista di amici impostata dal giocatore stesso. Il giocatore ha due minuti di tempo, sui tre round a disposizione, per cercar di formare il maggior numero di parole di senso compiuto mediante le sedici lettere della griglia 4×4 sullo schermo, utilizzando esclusivamente quelle fra loro adiacenti. Il punteggio è determinato dal valore assegnato a ciascuna lettera, dato dalla difficoltà d’inserimento nella parola, dalla lunghezza della parola e da eventuali bonus che raddoppiano o triplicano il valore della lettera o della parola stessa.
Boggle, meglio conosciuto in Italia come Il Paroliere, è un gioco inventato nel 1970 dallo statunitense Alan Turoff nel quale vengono lanciati all’interno di una griglia di plastica 4×4 trasparente sedici dadi speciali con lettere in modo da cercare entro tre minuti più parole di senso compiuto possibili formate da almeno tre lettere, partendo da un dado qualunque e impiegando quelli adiacenti per lato o per angolo. Alla scadere del tempo verranno attribuiti dei punteggi proporzionali alla lunghezza delle parole trovate, eliminando quelle trovate da più di un giocatore, contando una sola volta quelle con più significati.
Lo Scrabble fu inventato nel 1938 dall’architetto statunitense Alfred Butts. Si è diffuso in ben 121 Paesi e 29 differenti varianti linguistiche, generando innumerevoli competizioni e campionati sparsi in tutto il mondo. Caso unico, l’Italia ha dato origine ad una variante dal nome Scarabeo, inventata da Aldo Pasetti alla fine degli anni ’50 e frutto di una lunga battaglia legale conclusasi a favore di quest’ultimo. Lo Scrabble si gioca su una plancia formata da 225 caselle (15 x 15) nella quale 2-4 giocatori devono disporre le sette lettere estratte a sorte da un sacchetto e comporre una parola di senso compiuto che realizzi, possibilmente, il maggior numero di punti. Ogni lettera ha un valore basato orientativamente sulla frequenza della stessa nella lingua di riferimento, inoltre alcune caselle speciali, se coperte, offrono dei bonus che raddoppiano o triplicano il valore della medesima lettera o parola. Le abilità richieste ai giocatori sono la capacità di formare anagrammi e la conoscenza della lingua. La pratica del gioco può essere molto divertente e motivante, oltre che efficace dal punto di vista scolastico, in quanto concorre al potenziamento e affinamento dell’ortografia e del lessico, alla padronanza nell’uso del vocabolario, alla capacità di sviluppare specifiche strategie di gioco.
Progenitore dello Scrabble è il Lexicon. Ideato dallo stesso Butts nel 1931, consiste in un mazzo di 100 carte, ciascuna delle quali riporta una lettera e un punteggio che ricalcano, per frequenza e corrispondenza, gli schemi del futuro Scrabble. I giocatori estraggono casualmente dal mazzo nove carte, con le quali cercheranno di formare, entro un tempo prestabilito, quante più parole possibili.
Nel 1965 Armand Jammot crea Le mot le plus long, diventato il celebre gioco televisivo francese Des chiffres e des lettres, esportato con successo in tutto il mondo. Il format approda nel 1979 in Italia col nome di Paroliamo, dapprima su Telemontecarlo ed in seguito su Rai2. Di lì a poco il quiz televisivo diventerà l’omonimo gioco in scatola per 2-3-4 e più giocatori, molto in voga negli anni ’80. L’obiettivo è comporre in un tempo prederminato, utilizzando le lettere estratte, la parola più lunga possibile. Verranno utilizzati allo scopo due mazzi di carte, riproducenti le lettere dell’alfabeto, suddivise in 42 carte per le vocali e 78 carte per le consonanti. Ciascun giocatore chiederà, una per volta, dieci carte precisando, di volta in volta, se desidera una vocale o una consonante. Vince la mano chi avrà trovato la parola più lunga, guadagnando un punto per ogni lettera. Vince la partita chi raggiunge per primo i 50 punti. Esiste una variante di gioco che prevede l’estrazione simultanea di nove lettere: quattro vocali e cinque consonanti.
Nel 1995 il famoso enigmista e giocologo italiano Ennio Peres realizza Verba Volant, pubblicato originariamente nel 1989 col nome di Sai dov’è. Gioco per 2-5 giocatori, originale incrocio fra il Memory e i Giochi di Parole, prevede una dotazione di 54 tessere raffiguranti le lettere dell’alfabeto: con 36 di esse si andrà a formare un quadrato 6×6 di 36 tessere coperte, le restanti 18 costituiranno la riserva. Prima di cominciare ogni giocatore guarda segretamente tre tessere, una volta iniziati verranno scoperte quattro o più tessere, nel tentativo di formare una parola usando tutte le lettere che sono state scoperte. Se vi riesce si appropria delle lettere corrispondenti, rimpiazzandole con quelle della riserva e cominciando nuovamente, altrimenti rigira tutte le tessere scoperte e passa la mano al giocatore successivo. Si procede finché non restano lettere a sufficienza per formare vocaboli. Vince la partita colui che ottiene il punteggio più alto: ogni parola vale tanti punti quante sono le lettere che la compongono meno tre. Recentemente, Verba Volant è entrato a far parte del progetto “Giovani nel tempo”. Il progetto, nato per volontà della bolognese Laura Guidi, prevede la commercializzazione di giochi pensati, creati e prodotti in collaborazione con stimati psicologi e geriatri, allo scopo di allenare e mantenere le capacità cognitive (memoria, attenzione, linguaggio, pensiero astratto) e di proteggere la salute cognitiva e psicologica della persona. Una parte dei proventi è devoluta alla ricerca sull’invecchiamento condotta dal dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna.
Esempi del genere dimostrano come il variegato mondo dei giochi con le parole possa concretizzarsi nei campi più disparati, diventando utile strumento di apprendimento per giovani e meno giovani.

– da AetnaNet del 4 Marzo 2013
– da Sotto Le 2 Torri – Il Foglio di Bologna n° 41 – Febbraio 2013 – Pagine 37-38

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Non Chiamateli Giochi: l’Hex

3144e-hexgameL’Hex è un gioco astratto appartenente alla cosiddetta famiglia dei “giochi di connessione”, cui fanno parte numerosi altri. L’Hex, pur avendo delle regole semplicissime, è particolarmente articolato, con una ricchezza di strategie e tattiche tipiche di giochi ben più complessi, che ben si prestano ad applicazioni in ambito didattico.
Il gioco è stato inventato nel 1942 dal matematico danese Piet Hein, mentre contemplava il famoso problema di topologia dei quattro colori. Fu presentato nello stesso anno col nome di Polygon nel corso di una conferenza presso l’Istituto di Fisica Teorica Niels Bohr di Copenaghen. Nel 1948 il gioco venne reinventato in maniera del tutto indipendente con il nome di Nash o John dall’allora studente di matematica di Princeton John Forbes Nash, in seguito professore al Massachusetts Institute of Tecnology ed esperto di Teoria dei Giochi, insignito nel 1994 del Premio Nobel per l’Economia, la cui storia è stata raccontata nel libro A Beautiful Mind (1998), dal quale è stato tratto l’omonimo film con Russell Crowe (2001). Il nome Hex venne dato solo nel 1952, a seguito della pubblicazione e distribuzione del gioco da parte della Parker Brothers.
L’Hex si gioca in due su un tavoliere romboidale costituito da esagoni; il numero di esagoni può variare, ma la configurazione è di solito di 11 o 14 per lato. I due giocatori sono titolari ognuno dei due lati opposti del tavoliere, mentre le caselle d’angolo ai vertici del rombo appartengono ad entrambi gli schieramenti. Al proprio turno ciascun giocatore posizionerà una pedina in una qualsiasi casella esagonale libera del tavoliere, sicché una volta collocate le stesse non possano essere né spostate, né catturate. Scopo del gioco è connettere con una catena ininterrotta di proprie pedine i due lati del tavoliere contrassegnati dal proprio colore. Il gioco non può mai terminare in parità, poiché l’unico modo per impedire all’avversario di formare un percorso continuo è formarne uno con il proprio colore.
Queste poche e semplici regole possono in apparenza sembrare scontate, ciò nonostante l’Hex è un gioco di sorprendente sottigliezza matematica: poiché è un gioco finito ad informazione perfetta la cui partita non può mai terminare in pareggio, è stato dimostrato, tramite un elegante procedimento di reductio ad absurdum, che il secondo giocatore non può avere una strategia vincente a causa del “furto di strategia” del primo giocatore, che porta quindi quest’ultimo a prevalere sull’altro. Sfortunatamente le dimostrazioni a furto di strategia sono “non costruttive”: dimostrano che il primo giocatore ha una strategia vincente per pareggiare o vincere, ma non forniscono tale strategia, e tuttora l’Hex è un gioco non ancora risolto, se non per particolari casi e configurazioni di gioco.
L’Hex appassiona da sempre scienziati e matematici (sembra sia stato uno dei passatempi preferiti di Einstein), molti dei quali si sono dedicati alla ricerca di una strategia che garantisca una vittoria certa, all’elaborazione di varianti o di giochi alternativi ad esso ispirati. Il più celebre è il Twixt, ideato nel 1962 a Vienna da Alex Randolph. Il Twixt si gioca su un tavoliere composto da una griglia forata 24×24 cui mancano i quattro fori d’angolo. Ogni giocatore è il titolare dei due lati opposti del tavoliere, l’obiettivo del gioco è connetterli tra loro per mezzo di una catena continua di pioli e barrette colorati. Al proprio turno ciascun giocatore colloca un piolo in un qualsiasi foro libero: ogni qualvolta due pioli dello stesso colore distano un passo di Cavallo degli Scacchi (la classica “L” composta da 3×2 fori) possono essere collegati con una barretta, le quali non si possono mai incrociare né con le proprie né con quelle dell’avversario, tuttavia si ha la possibilità di rimuovere uno o più leganti del proprio colore per ricollocarli in un’altra posizione.
A cavallo tra gli anni ’50 e ’60 il matematico e ingegnere elettronico Claude Shannon e il matematico ed economista David Gale inventarono indipendentemente un gioco di strategia conosciuto col nome di Bridg-it, che differisce nelle varianti di Gioco di Shannon e Gale, dal nome dei rispettivi creatori. Identiche nella sostanza, le due varianti prevedono sottili differenze nella forma. Il Gioco di Shannon prevede un grafico finito costituito da due nodi speciali: A e B. Ogni connessione del grafico può essere colorata o rimossa. I due giocatori si chiamano Short e Cut: il giocatore Short, durante il suo turno, può colorare una qualsiasi connessione presente sul grafico, mentre il giocatore Cut può cancellare dal grafico una connessione a sua scelta, purché non sia già colorata. Se Cut riesce a creare un grafico dove A e B non sono più connessi, vince, viceversa la vittoria andrà a Short se riesce a creare un percorso colorato da A a B, in un perfetto dualismo che premia lo stesso obiettivo: assicurarsi una determinata connessione tramite un’altra determinata connessione. Il Gale utilizza una disposizione rettangolare di pallini neri, immersi in un campo similare di pallini bianchi. I giocatori connettono, a turno, una coppia qualsiasi di pallini adiacenti del proprio colore, tramite una linea orizzontale o verticale, senza attraversare quella dell’altro contendente. Il fine del gioco è congiungere con una linea ininterrotta i rispettivi lati dello schema, costituiti da almeno cinque pallini.
Nel 1980 Christian Freeling inventò l’Havannah, considerato da molti la naturale evoluzione dell’Hex, per via della diversificazione delle possibilità di vittoria. L’Havannah impiega un tavoliere di gioco composto da 271 caselle esagonali, disposte in modo da formare un grande esagono regolare di 10 caselle per lato. I giocatori dispongono a turno una propria pedina in una qualsiasi casella libera del tavoliere. Obiettivo del gioco è riuscire a creare per primi con i propri pezzi una delle tre configurazioni vincenti: un anello (una catena di pezzi che racchiuda al suo interno almeno una casella), un ponte (una catena di pezzi che colleghi due caselle d’angolo) o un bivio (una catena di pezzi che colleghi tre lati del tavoliere, escluse le caselle d’angolo).

– da AetnaNet del 5 Novembre 2012
– da Sotto Le 2 Torri – Il Foglio di Bologna n° 37 – Ottobre 2012 – Pagine 35-36

Non Chiamateli Giochi: Scacchi Antichi e Orientali

92d63-chaturangaNon tutti sanno che gli scacchi moderni portano nel loro DNA numerose tracce delle cosiddette “varianti antiche”, come lo Chaturanga e lo Shatranj, tutt’oggi praticate.
Lo Chaturanga si è diffuso in India a partire dal VI secolo d.C. e si ritiene essere il primo antesignano degli scacchi; alcuni studiosi lo reputano a sua volta derivare da arcaici giochi cinesi, tuttavia quest’ultimi sembrerebbero presentare solo alcuni tratti in comune con esso, confermando così la precedente tesi. Il nome deriva da chatur e anga, rispettivamente ‘quattro’ e ‘membro’, rifacendosi all’antica struttura dell’esercito indiano, composto da quattro elementi, quali la fanteria, la cavalleria, gli elefanti e i carri da guerra. Si gioca in quattro, due contro due, ponendo agli angoli del tavoliere ciascuno dei quattro eserciti di otto pezzi ciascuno. I colori delle armate (verde, rosso, giallo, nero) sono tipicamente indiani, rintracciabili anch’essi nel celebre gioco del Pachisi. I pezzi a disposizione sono un Rajah (il ‘re’), un Elefante, un Cavaliere, una Nave e quattro Fanti, con movimenti che ricalcano da vicino quelli odierni. La particolarità del gioco sta nel porre una certa posta iniziale nel piatto dei vincitori e nell’uso di un dado con numeri da 2 a 5, strumento atto a determinare la tipologia di mossa al proprio turno: se il giocatore ottiene 2 muoverà la sua nave, se ottiene 3 il cavaliere, se ottiene 4 l’elefante, se ottiene 5 un fante o il rajah. Se è possibile, la mossa è sempre obbligatoria altrimenti si salta il turno. A seconda delle posizioni o combinazioni che i pezzi assumono nel corso della partita, del controllo di determinate case o catture di pezzi avversari è possibile raddoppiare o quadruplicare la posta o scambiare dei prigionieri. Lo chaturanga combinava quindi fortuna e abilità, divenendo uno dei primissimi giochi d’azzardo dell’umanità, concetto che ancora oggi viene espresso con l’etimo arabo di az-zah (‘dado’).
Dall’India il gioco passò alla Persia col nome di Chatrang. Gli Arabi, dopo alla conquista di quest’ultima, lo diffusero col nome di Shatranj, dal persiano shah (‘re’), stilizzando i pezzi nelle forme ed eliminando ogni elemento aleatorio. Lo Shatranj è ufficialmente considerato il diretto antenato degli scacchi, le cui regole di gioco sono sostanzialmente simili. Nel passaggio in Europa intorno all’anno Mille, ad opera dei Mori in Spagna e dei Crociati di ritorno dalla Terra Santa, i pezzi assunsero le correnti fattezze tipicamente medievali, ascrivibili alle corti del tempo. Lo shatranj si gioca in due su una scacchiera 8×8. Al consueto Shah, che muove come il re negli scacchi, si aggiunge il Visir o Primo Ministro (in seguito la “Regina”), due Fil, gli Elefanti poi diventati “Alfieri”, due Cavalli, due Ruhk (cammelli da guerra arabo-persiani) poi diventati “Torri” e otto Pedoni. Scopo del gioco è lo scacco matto o intrappolamento del re avversario, dall’arabo shah-mat (‘re-morto’).
Parallelamente alla diffusione dello shatranj in Medioriente e degli scacchi in Europa si assiste in Estremo Oriente allo sviluppo delle varianti dello XiangQi in Cina e dello Shogi in Giappone, derivati a loro volta dal chaturanga indiano.
Parecchio praticato in Cina, lo XiangQi o “Gioco degli scacchi cinese” fu il risultato dell’esportazione del chaturanga in Cina ad opera di mercanti, combattenti e buddisti. Alcuni ricercatori lo fanno risalire al IV secolo a.C. Secondo lo studioso cinese David H. Li sarebbe invece stato ideato nel 205 a.C. dal generale Han Xin, discepolo del famoso generale Sun Tsu. Si gioca in due su una scacchiera composta da dieci traverse orizzontali e nove colonne verticali. A differenza degli scacchi i pezzi vengono posizionati sulle intersezioni o punti, così come nel Go/WeiQi. Il campo di gioco è diviso orizzontalmente in due parti da un fiume, al centro delle prime tre file ritroviamo un quadrato composto da nove punti che rappresenta il castello. I pezzi sono tutti di forma circolare sui quali sono marcati dei kanji, i tipici ideogrammi cinesi. Ciascun giocatore ha a disposizione un Imperatore (oggi “Generale”) e due Mandarini (oggi “Consiglieri”) che muovono esclusivamente all’interno del castello, due Torri (dette anche “Carri”), due Cannoni (detti anche “Bombarde”), due Cavalli, due Elefanti e cinque Soldati (o “Pedoni”). Si ha la vittoria quando un giocatore riesce ad attaccare il re avversario ed egli non ha mosse che lo tolgano da tale situazione, o quando le uniche mosse del giocatore di turno esporrebbero il re ad un attacco avversario. È possibile applicare alcune speciali regole con handicap tra giocatori di forza differente, prevedendo un diverso numero di pezzi, di mosse o di movimento e cattura, a favore o meno di uno specifico giocatore.
Lo Shogi, letteralmente ‘Gioco dei Generali’, trae origine dallo xiangqi. Fu introdotto in Giappone da messi imperiali verso l’ottavo secolo d.C., per poi evolversi progressivamente, sino alla sua forma attuale, a partire dall’anno Mille. Lo shogi si gioca in due su una scacchiera (shogiban) cromaticamente uniforme di nove caselle per lato, con due linee di promozione che separano la terza traversa dalla quarta e la sesta dalla settima. I due giocatori, Bianco e Nero (Gote e Sente) dispongono di venti pezzi sagomati a forma di freccia, tutti di identico colore, sul cui fronte è riportato un ideogramma giapponese e la punta rivolta in direzione dell’avversario, così da determinare chi ha il controllo del pezzo durante il gioco. L’equipaggiamento di ciascun giocatore è composto da un Re (unici pezzi differenziati per colore, Osho o “Signor Generale” per il re bianco, considerato il regnante, e Gyoku o “Generale di Giada” per il re nero, considerato lo sfidante), due Generali d’Oro (Kin), due Generali d’Argento (Gin), due Cavalli (Kei), due Lancieri (Kyo), una Torre (Hi), un Alfiere (Kaku) e nove Pedoni (Fu). Come negli scacchi l’obiettivo rimane quello dello scacco matto, ciò nonostante i due giochi presentano alcune differenze. Come nello xiangqi è possibile effettuare delle partite con handicap, giocando con un numero inferiore di pezzi. Quando taluni pezzi giungono oltre la linea di promozione acquistano specifiche abilità aggiuntive, oppure si trasformano in determinati pezzi superiori. I pezzi catturati, inoltre, non vengono eliminati dal gioco ma rimessi in campo nelle fila avversarie, con facoltà di “paracadutarli” in una casella vuota, a scelta del giocatore; quest’ultima regola si rifà idealmente alle frequenti guerre feudali nipponiche, dove le sorti della guerra erano decise dalle mutevoli alleanze, con il passaggio dei vari contendenti da un fronte all’altro.
Gli scacchi sembrano seguire una linea evolutiva che non conosce battute d’arresto e che in futuro potrebbe riservarci ulteriori e gradite sorprese.

– da AetnaNet del 29 Agosto 2012
– da Sotto Le 2 Torri – Il Foglio di Bologna n° 35 – Agosto 2012 – Pagine 27-28

Non Chiamateli Giochi: i Mancala

081a5-mancalaCon Màncala si indica tutta quella famiglia di giochi di fossi e ciottoli, semina e raccolta, nei quali vengono distribuiti dei semi in un certo numero di buche. Il termine deriva dall’arabo naqala (muovere/spostare qualcosa dal suo posto) e rientrano a pieno titolo nel vasto campo dell’archeologia ludica, universalmente ammessi nel novero dei giochi più antichi dell’umanità. Nati in Africa, l’origine risale probabilmente all’Antico Egitto; pur non potendo stabilire con certezza la datazione, sono state ritrovate nel tempio di Kurna, sulla riva occidentale del Nilo, una serie di buche scavate nelle pietre di un tempio risalente al 1400 a.C. I più antichi ed inequivocabili mancala, risalenti al VI-VII secolo d.C., sono invece stati ritrovati in Etiopia durante degli importanti scavi archeologici.
Dall’Africa il gioco si è progressivamente diffuso in tutto il mondo: verso Oriente, attraverso le rotte dei mercanti lungo le coste dell’Oceano Indiano e i flussi migratori conseguenti alla diffusione della cultura musulmana di origine nordafricana, ed in Occidente, tramite il commercio e la tratta degli schiavi nelle Americhe.
Dei Mancala esistono innumerevoli versioni, spesso differenti solo per minuzie o per particolari regole adottate localmente, ed è conosciuto con tantissimi nomi diversi, a seconda dell’area geografica di riferimento. Caratteristica comune dei mancala è il tavoliere di gioco, con una serie di buche (variabili numericamente da sei a dieci) disposte su un certo numero di file di egual lunghezza (normalmente da due a quattro). Dentro le buche (dette anche case) vengono collocati ad inizio partita la medesima quantità di semi, anch’essi variabili numericamente, solitamente semi di caesalpinia, ciottoli, conchiglie o fagioli. Alle estremità del tavoliere possono essere presenti due buche più grandi, dette granai, la cui funzione è differente in base alla tipologia di mancala: mero deposito dei semi catturati o vera e propria casa aggiuntiva con finalità speciali.
Scopo del gioco è catturare più semi dell’avversario. Ciascun giocatore provvederà ad effettuare una semina, prelevando tutti i semi presenti in una propria buca per poi distribuirli nelle case adiacenti, sia proprie che avversarie, descrivendo un caratteristico movimento circolare orario o antiorario. A seconda della variante di gioco, può compiere delle catture quando: l’ultimo seme termina in una casa avversaria comportando la cattura dei pezzi presenti in quella casa; una semina si concluda in una casa vuota con la conseguente presa dei semi della casa avversaria antistante; a seguito della semina si determini un dato numero di semi nelle case avversarie. In alcuni mancala i pezzi catturati vengono eliminati dal gioco, in altri posti nelle buche del giocatore che ha effettuato la cattura.
Strumento simbolico con forti connotati culturali, religiosi e magici, studiato con interessi antropologici ma anche logici e matematici, sono stati riconosciuti come il miglior esempio di gioco raffinato ancora presente in “culture primitive”, rivelando profondità di strategia e sottigliezze di calcolo non inferiori a quelli degli scacchi o di altri giochi occidentali ed orientali, tanto più notevoli in quanto i giocatori di mancala sono stati o sono ancora in molte situazioni privi di cultura alfabetica e numerica. Così come accade con i nostri sport, giochi e videogames, i mancala offrono momenti di aggregazione e di reciproco scambio d’esperienze, nonché interessanti spunti pedagogici e didattici, tanto da divenire per i bambini un ottimo espediente per l’apprendimento dell’aritmetica.
Il Wari è la variante più diffusa al mondo. Semplice ed immediato è praticato in gran parte dell’Africa e dei Caraibi. Conosciuto con diversi nomi, quali Owari, Oware, Awele, Warri, si gioca su un tavoliere composto da due file di sei case più i due granai, utilizzando 48 semi suddivisi in numero di 4 per casa. Il gioco prevede una mossa per turno con una semina antioraria. Obiettivo finale è catturare più semi dell’avversario. Ha due sottovarianti minori: l’Oware Grand Slam e il Cross-Wari.
Il Bao è probabilmente il mancala più complesso, caratterizzato da regole articolate e da una maggiore profondità strategica. Tipico della cultura swahili (bao significa ‘tavoliere’), è diffuso in Africa orientale (Tanzania, Kenya, Zanzibar, Comore). Si gioca su un tavoliere formato da quattro file di otto buche. Ogni giocatore dispone di 32 semi ed utilizza esclusivamente le due file di buche più vicine a sé, effettuando turni di semina singoli o a staffetta, con o senza cattura. Vince il giocatore che per primo svuota la fila interna dell’avversario o che porta l’avversario a non avere più alcuna mossa legale a disposizione.
L’Omweso è un mancala giocato in Uganda e Ruanda, con numerose sottovarianti diffuse nelle regioni limitrofe. Tipo di tavoliere e numero dei semi sono identici a quello del bao, le regole tuttavia sono più immediate. L’obiettivo è spingere l’avversario a non avere più mosse a disposizione.
Il Congkak è diffuso in Indonesia, Malesia, Filippine, Thailandia, Singapore, Sri Lanka e alle Maldive. Raffigurato sulle monete da 10 cents del ringgit malese, è l’unico gioco al mondo riprodotto su un conio ufficiale. Variante dalla dinamica elaborata, utilizza un tavoliere costituito da due file di cinque, sei o sette buche, più i due granai. Ogni giocatore impiega i propri semi (sette per buca) attraverso due distinte fasi di gioco. Il gioco ha fine quando si va al di sotto di una soglia minima di semi in proprio possesso.
Il Bohnenspiel (letteralmente ‘gioco dei fagioli’) è l’unico mancala tipicamente europeo, giocato sin dall’Ottocento nei paesi baltici e tedeschi, in particolare dall’aristocrazia prussiana e russa, diffuso ancora oggi nell’Europa orientale. L’equipaggiamento è lo stesso del wari come pure la meccanica di gioco, eccezion fatta per la disposizione iniziale dei semi (sei per buca) e alcune regole di cattura.
Esistono anche mancala moderni, come il Kalah. Inventato nel 1940 da William Julius Champion Jr., è conosciuto anche come Bantumi ed ha avuto un considerevole successo commerciale negli Stati Uniti ed in Germania. Il tavoliere è identico a quello del wari ma i semi a disposizione sono 36 (tre per casa), inoltre sono diverse sia le regole di cattura che la funzione del granaio, essendo anch’esso attraversato dalla semina. Nel 2004 è stata inventata un’ulteriore variante, il Cross-Kalah, con l’obiettivo di ridurre il vantaggio del giocatore primo di mano, nell’intento di rendere il gioco più equilibrato.
Varianti minori ma altrettanto diffuse sono l’Ayoayo (Nigeria), l’Endodoi (Kenya/Tanzania), il Layli Goobalay (Somaliland), il Tschuba (Sudafrica), l’Hawalis (Oman), l’Hoyito (Repubblica Dominicana) e tanti altri, a testimonianza di una storia e cultura millenaria.

– da AetnaNet del 31 Luglio 2012
– da Sotto Le 2 Torri – Il Foglio di Bologna n° 34 – Luglio 2012 – Pagine 9-10

Non Chiamateli Giochi: il Bridge

55211-bridgeÈ possibile praticare uno sport, pur rimanendo comodamente seduti? La risposta è sì! Ciò che occorre è un mazzo di carte e imparare a giocare a Bridge. Parlare di un gioco di carte come di uno sport potrebbe di primo acchito sembrare un’esagerazione, ma così non è per il bridge che, insieme ad altre discipline, ha vista riconosciuta da parte del Comitato Olimpico ed altri organi internazionali la definizione di sport ed è stato inserito nei “World Mind Sports Games”, le Olimpiadi degli Sport della Mente.
In Italia, al pari della dama e degli scacchi, il bridge è una disciplina sportiva associata al CONI ed ha da tempo sottoscritto col Ministero della Pubblica Istruzione un protocollo d’intesa che ufficializza la promozione del progetto “Bridge a Scuola”, consentendone l’attività scolastica a partire già dalla scuola primaria, attraverso la pratica del Minibridge.
Gioco di coppia per antonomasia, il bridge non è un semplice gioco di carte (come dire che il calcio, il basket o il tennis sono giochi con la palla) ma è un gioco “con le carte” che sviluppa valori come la socializzazione, l’aggregazione, l’amicizia, la solidarietà, la collaborazione e capacità di analisi e di sintesi, di deduzione logica e razionalità, abilità e competenze indispensabili per migliorare le capacità di pensiero e le life skills.
Il gioco del bridge vanta radici antichissime. Del suo progenitore diretto, il “Whist”, si hanno tracce in Inghilterra sin dal XVI secolo, dov’era praticato tra il popolo. Il gioco cominciò ad appassionare anche l’aristocrazia ed ebbe un costante, progressivo sviluppo, tanto da esser codificato in regole precise nel 1742 da sir Edmond Hoyle, che ebbe il merito d’inquadrare un buon gioco di carte concependolo come veicolo sociale con profondi significati morali, ragione nella quale risiede ancora oggi il principale successo del bridge. Nel 1873 nasce il “Whistbridge”, praticato, come il bridge moderno, da quattro giocatori in due coppie contrapposte. Contemporaneamente si diffonde in Medio Oriente il “Birich”, un analogo gioco di origini russe. Da qui la disputa, ancora oggi irrisolta, sull’esatta etimologia del termine “bridge”: per alcuni deriverebbe dall’instaurarsi di un “ponte” comunicativo tra la coppia di compagni, per altri semplicemente dal termine birich.
Il gioco viene gradualmente modificato negli anni successivi, diffondendosi largamente in Francia e negli Stati Uniti, sino a quando nel 1925, l’americano Harold Stirling Vanderbilt non lo codifica nel moderno “Contract Bridge”, le cui regole sono tuttora in vigore. Di lì a poco verrà fondata nel 1932 a Scheweningen (Olanda) l’International Bridge League, col compito di organizzare il primo Campionato Mondiale a squadre.
Il bridge è anzitutto un gioco di prese che vede contrapposte due coppie, dette “linee”. Si gioca con un mazzo di 52 carte, di tipo francese, esclusi i jolly. Il mazzo è composto da quattro semi (Picche, Cuori, Quadri, Fiori) di 13 carte ciascuno. Il valore è decrescente, dall’Asso al 2. Il mazziere, a rotazione, distribuisce tutte le 52 carte, in senso orario, così che al termine ogni giocatore avrà una “mano” di 13 carte. La presa è costituita dalle quattro carte giocate a turno dai giocatori ed è vinta da chi ha giocato la carta più alta. Ciascun giocatore ha l’obbligo di rispondere nel colore giocato dal primo di mano, se non possiede alcuna carta in quel colore, potrà giocare una carta di un altro colore, effettuando uno “scarto”. Il gioco si articola su due distinte fasi, la “licitazione” (o dichiarazione) e il “gioco della carta”. Scopo del gioco determinare, attraverso la licitazione, il numero di prese (contratto) che si intendono realizzare in seguito ed ogni dichiarazione dovrà superare la precedente o per rango o per numero di prese. Durante la dichiarazione la coppia può scegliere un colore dominante (la briscola o atout), e decidere di giocare un contratto ad atout o a senza atout. Il dialogo avrà termine quando su una licita di un giocatore gli altri tre passeranno, non effettuando alcuna licita ulteriore. La dichiarazione finale costituirà il contratto che dovrà essere mantenuto dalla coppia nella successiva fase di gioco della carta.
È evidente come il gioco del bridge unisca valenze proprie sia dello sport sia dell’attività intellettiva: per apprenderlo non occorre studio, ma comprensione. Il bridge è una disciplina per tutte le età, affascinante, logica e appassionante, adatta sia ai giovani sia a chi è avanti con gli anni. Tutte le componenti del gioco, sia teoriche che pratiche, hanno una naturale matrice logica, matematica e statistica. Ciò obbliga il giocatore alla concentrazione e al ragionamento, impegnandolo ad affrontare situazioni di problem solving pressoché costanti; il bridge è un ottimo strumento per allenare la memoria e l’intelligenza, proponendo nello spazio di una smazzata una serie di condizioni la cui risoluzione necessita dell’utilizzo della memoria a breve e a lungo termine e dell’intelligenza fluida e cristallizzata. L’attenzione e l’interesse sono continuamente stimolati per via della diversa configurazione delle carte, che cambia dopo pochi minuti, modificando così il tipo di impegno richiesto.

– da AetnaNet del 6 Luglio 2012
– da Sotto Le 2 Torri – Il Foglio di Bologna n° 33 – Giugno 2012 – Pagina 17

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[di Avv. Giovanni R. Patti, da “In Aevum”, Rivista dell’Istituto San Michele di Acireale, N° 22, Maggio 2012, pag. 8]

41446-stemma4Ritenete che la prima cosa a cui si pensi quando si riceve in regalo una scatola di cioccolatini sia quella di cominciare a mangiarli? Naturalmente (e questo soprattutto quando i cioccolatini siano della Antica Cioccolateria Acese, una ditta siciliana –di Aci S. Antonio (CT)- che proprio sui sapori siciliani fa leva per proporre prodotti dai gusti originali).

Talvolta però può aversi una qualche deformazione mentale, e il ‘mangiarli’ a cui si pensa sia l’esito di una mossa di gioco da scacchiera.

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La scatola dei “giocolatini”

È questa la prima impressione che si è avuta al ricevere in regalo una confezione di 18 cioccolatini assortiti proprio della Antica Cioccolateria Acese, equamente divisi in nove al gusto di cioccolato fondente e in nove al latte, in una scatola quadrata che già da sé ricorda immediatamente un gioco da tavolo.

Il gioco da scacchiera che ha sollecitato l’impressione (e questo è ancor più strano) non esiste, ma è stato inventato al momento, proprio guardando la confezione di questi dolci (cakes): gli S-cakes.

Il nome è stato così ideato perché possiamo vagamente considerare il gioco una variante degli scacchi, dato che richiede una scacchiera di 5 x 5 caselle, e i cui pezzi sono proprio i cioccolatini che assumono il ruolo che nella quasi totalità è quello dei noti pezzi degli scacchi.

Essi si possono così elencare (nella foto dal basso in alto e da destra a sinistra, in uno con il gusto del cioccolatino corrispondente): in prima fila, R – due Re (Gianduia dell’Etna); A – due Alfieri (Zagara); in seconda fila, alle estremità, T – due Torri (Fichi); al centro, due p – pedoni (Nocciola); in terza fila, alle estremità, Rg – due Regine (Pistacchio di Bronte) e altri quattro pedoni (quelli più vicino alla Regina a sinistra al gusto di Mandarino, gli altri due al gusto di Mandorla di Sicilia); in quarta fila, alle estremità, C – due Cavalli (al gusto di Malvasia delle Lipari); al centro Rs – due Riservisti (al gusto di Arancia).

Come si sarà notato esiste un pezzo identico sia per il cioccolato fondente che per quello al latte: il che permette di formare due schieramenti con un numero uguale di pezzi, come i bianchi e i neri degli scacchi.

I due schieramenti si dispongono nella scacchiera secondo il seguente ordine:

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La disposizione dei “pezzi”

I pezzi muovono come nel gioco degli scacchi (Torre: verticalmente o orizzontalmente; Alfiere: diagonalmente; Regina: verticalmente o orizzontalmente o diagonalmente; Re: come la Regina, ma di una sola casella per volta; Cavallo: con una mossa a L, e cioè –anche scavalcando altre pedine- una casella verticale e due orizzontali; due verticali e una orizzontale; una orizzontale e due verticali; due orizzontali e una verticale).

Rispetto agli scacchi i pedoni muovono come la Torre, ma di una casella per volta, ed eliminano il pezzo più vicino in diagonale alla propria casella.

L’eliminazione anche per tutti gli altri pezzi avviene prendendo il posto nella casella del pezzo ‘mangiato’.
Il Riservista è una pedina che non esiste negli scacchi. Nel nostro gioco sostituisce a scelta del giocatore o una Torre, o un Alfiere o un Cavallo già eliminato (e il cioccolatino-pezzo prescelto si porrà sulla base rotonda del cioccolatino del Riservista). In altre parole, è un modo per recuperare al gioco un altro pezzo con le stesse funzioni di uno eliminato, attingendo alla ‘riserva’ dell’esercito –da qui il nome- (e per questo Re e Regina non possono essere sostituiti). Il Riservista “prende posto” nello scacchiere (e cioè viene collocato in una casella a piacimento) al posto di una mossa.

Alla fine, come negli scacchi, vince chi dà scacco matto al Re, costringendolo comunque a muovere in una casella in cui sarà eliminato.

Importante: In assenza dei ‘giocolatini’ si possono utilizzare i pezzi degli scacchi e due pedine della dama (quest’ultime per il ruolo del riservista).

***

In conclusione è d’uopo un’avvertenza. Questo gioco ha una sola controindicazione: che i pezzi finiscono per essere mangiati veramente e –alla fine- è già un’impresa riuscire a giocare qualche partita o poco più senza che si stia già cominciando a digerirli.

GIOVANNI R. PATTI

[Si ringrazia Christian Citraro –appassionato di giochi da tavolo- il cui gentile pensiero della scatola di cioccolatini ha suscitato in chi scrive il sottile pensiero del gioco.]

Non Chiamateli Giochi: gli Scacchi Eterodossi

b0c91-eteroscacchiPer “Scacchi Eterodossi” si intendono tutte quelle varianti di gioco basate sugli scacchi ma alle quali sono state apportate un numero più o meno rilevante di cambiamenti, relativamente ad obiettivi, posizionamento, movimento e cattura, tipologie di scacchiere e pezzi.
Sin dalla loro nascita gli scacchi sono sempre stati in continua evoluzione, tant’è che le attuali norme internazionali del 1924, che codificano i cosiddetti “Scacchi Ortodossi”, universalmente riconosciuti, rappresentano soltanto l’ultimo e decisivo passo nella storia millenaria del gioco; esiste infatti un grande assortimento di varianti a base scacchistica, stimabile in più di 2000, che utilizza il consueto materiale ma con regole differenti.
Conoscere le varianti scacchistiche significa esplorare un variegato universo ludico che può senz’altro arricchire la passione e l’esperienza di principianti ed esperti, siano essi giovani allievi di scacchi a scuola o anziani praticanti nei circoli scacchistici.
Di seguito vengono elencate alcune tra le principali varianti, diffuse e praticate a diversi livelli di conoscenza e/o di gioco:

  • Gli “Scacchi 960” o Fischer Random Chess (Scacchi Casuali di Fischer) furono inventati nel 1996 dall’indimenticato campione del mondo di scacchi (1972-1975) Bobby Fischer. Nelle intenzioni di Fischer vi era l’intento di rinnovare un gioco millenario, con la ferma convinzione di favorire la creatività e il talento dello scacchista, sacrificati, negli scacchi ipermoderni e computerizzati di oggi, allo studio mnemonico delle aperture. Negli Scacchi 960 i pezzi e lo scopo del gioco sono gli stessi degli scacchi. I pedoni vengono collocati nella seconda traversa, mentre i pezzi della prima traversa possono esser posizionati in modo casuale, per accordo o sorteggio, rispettando taluni vincoli. In questo modo le posizioni legali diventano 960, da qui appunto il nome.
  • Gli “Scacchi Vinciperdi”, nati nel secondo dopoguerra, furono introdotti in Italia all’inizio degli anni Settanta, e sono ancora oggi una delle varianti più divertenti e diffuse, presentandosi come una sorta di scacchi a perdere. Scopo del gioco è costringere l’avversario, attraverso la presa, che qui diviene obbligatoria, a catturare tutti i propri pezzi e pedoni, compreso il Re, che diventa un pezzo senza particolari prerogative. Il giocatore che riesce per primo in questo intento, vince la partita.
  • Gli “Scacchi Marsigliesi” iniziano con la mossa del bianco e si prosegue con successive due mosse consecutive (una bi-mossa) ad ogni turno per entrambi i contendenti.
  • Gli “Scacchi Progressivi” cominciano con la prima mossa del bianco per poi proseguire con due mosse simultanee del nero, tre del bianco e via dicendo, sino allo scacco matto finale o alla patta.
  • La “Quadriglia” (o Bughouse) si gioca in quattro, suddivisi in due squadre, su due scacchiere separate. Particolarità di questa variante la possibilità che i pezzi catturati da un giocatore vengano trasferiti sulla scacchiera dove gioca il compagno col colore opposto, che può a sua volta inserirli alla prima occasione in una casa libera. Derivante dalla Quadriglia, la variante “Crazyhouse” si gioca su una scacchiera, differendo dalla prima per il fatto che ogni pezzo catturato all’avversario può esser tramutato in un pezzo del proprio colore.
  • Gli “Scacchi Alice”, ispirati alla celebre eroina di Carroll de Attraverso lo specchio, si giocano con un solo set di pezzi ma su due scacchiere. Ad inizio partita tutti i pezzi sono disposti sulla prima scacchiera ma ogni qualvolta si effettua una mossa sulla scacchiera in cui il pezzo si trova non appena completato il movimento viene trasferito sull’altra, una mossa è quindi impossibile se sull’altra scacchiera la casa in cui il pezzo si deve recare è occupata.
  • La variante “Atomic” mira ad una strategia kamikaze, volta a far esplodere il re avversario, poiché a seguito di una qualsiasi cattura vengono eliminati dalla scacchiera sia il pezzo catturante che tutti i pezzi avversari (ad eccezione dei pedoni) trovatisi nel quadrato formato dalle case adiacenti.
  • Gli “Scacchi di Dunsany” vedono un’orda di 32 pedoni bianchi contro il normale schieramento del nero. Obiettivo dei bianchi lo scacco matto contrapposto alla totale eliminazione di quest’ultimi da parte del nero.
  • Gli “Scacchi Esagonali” si giocano su scacchiere esagonali. Le principali varianti sono, dal nome dei loro inventori, la “Gliński”, la “McCooey” e la “Shafran”. Il movimento e la cattura dei pezzi si rifà a quello originale, adattandolo al nuovo contesto.
  • Gli “Scacchi Tridimensionali” utilizzano scacchiere a tre dimensioni sul modello degli scacchi 3D illustrati nella celebre saga di Star Trek.

Discorso a parte meriterebbero le varianti antiche del Chaturanga (India) e dello Shatranj (Persia), antenati degli scacchi moderni, le odierne varianti orientali dello Xiangqi (Cina) e dello Shogi (Giappone) e il recentissimo Shuuro, un ibrido tra scacchi e wargames tridimensionali, per i quali si dà appuntamento ad una nuova puntata.

– da AetnaNet del 9 Giugno 2012
– da Sotto Le 2 Torri – Il Foglio di Bologna n° 32 – Maggio 2012 – Pagina 10

Non Chiamateli Giochi: il Go

c82fc-go-boardAffascinante e dalle nobili origini, “Go” è il nome giapponese di un gioco da tavolo strategico per due giocatori, noto in Cina col nome di Weiqi (letteralmente gioco del circondare), ed in Corea come Baduk. Conosciuto dai più come gli “Scacchi d’Oriente”, sembrerebbe essere nato in Cina circa 4000 anni fa. Inizialmente collegato ad antiche pratiche divinatorie, si diffonde successivamente fra la classe dei letterati come gioco di strategia e raffinata metafora dell’equilibrio delle forze naturali. Annoverato tra la quattro arti dello junzi (il gentiluomo cinese), assieme alla calligrafia, alla pittura ed a suonare lo guqin, il go, come molti altri aspetti della vita politica e sociale, costituiva un esercizio, una parte del tutto, volto a migliorare la propria posizione mentale in relazione al mondo esterno: vuole difatti la leggenda che l’imperatore cinese Yao (2337–2258 a.C.) lo fece inventare dal suo consigliere Shun allo scopo di insegnare a suo figlio la disciplina, la concentrazione e l’equilibrio.
Oggigiorno il go è diffuso nell’intero Oriente e praticato da persone di tutte le età, con fini didattici nelle scuole, di ricerca nel campo dell’intelligenza artificiale nelle università o agonistici nei numerosi circoli, includendo una folta schiera di giocatori professionisti.
Caratterizzato da regole molto semplici, il go dà origine ad una strategia sorprendentemente complessa. Il piano di gioco (detto goban) è un reticolo di 19 righe orizzontali e 19 righe verticali, che si intersecano in 361 incroci, ma è frequente l’uso, per fini principalmente didattici, di goban ridotti con 13×13 o 9×9 intersezioni. I due giocatori depongono a turno le loro pietre (goishi), custodite in appositi contenitori (goke), su un qualsiasi incrocio libero, senza più rimuoverle una volta collocate, cercando allo stesso tempo di connetterle tra loro, al fine di dar forma ai rispettivi territori in cui alla fine sarà diviso il goban. Vincitore non sarà chi ha annientato l’avversario, come spesso accade in altri giochi, bensì chi sarà riuscito a formare territori più ampi, attraverso una meccanica di gioco che premia l’equilibrio. Nonostante la staticità delle pietre, il go è un gioco molto dinamico, molto simile ad una guerra: si parte con il consolidamento delle basi per poi espandersi, ci sono battaglie, accerchiamenti e catture, scambi di territorio, invasioni e ritirate, astuzie tattiche e decisioni strategiche, fino al consolidamento finale dei territori.
Il go è fondamentalmente una simulazione di scenari economici. Potrebbe essere paragonato, per analogia col mondo degli affari e rifacendosi al “Ciclo di Deming”, ad un piano a lungo termine che sfrutta a fondo il controllo di qualità, volto al miglioramento continuo dei processi e all’utilizzo ottimale delle risorse. Al contrario, la dama e gli scacchi cercano il profitto nel breve termine, focalizzando le energie su pochi e mirati aspetti. Ciò che contraddistingue infatti il go dai giochi occidentali della dama e degli scacchi è il frequente uso del pensiero strategico rispetto a quello tattico. Quando si gioca a go, è necessario usare nello stesso tempo facoltà intuitive ed analitiche, di contro la dama e gli scacchi sono analitici dall’inizio fino alla fine ed ogni mossa viene compiuta in seguito ad una analisi. Nel go il puntare o selezionare un solo aspetto in modo esaustivo non porta beneficio anzi è estremamente pericoloso, poiché “nulla ha senso se non nel contesto”. Il successo deriva da una serie di gradi, l’obiettivo, pertanto, non è tanto quello di sconfiggere l’avversario, quanto di massimizzare vantaggi e svantaggi.
Ritroviamo in quanto affermato la storica dicotomia tra Oriente ed Occidente, il loro differente approccio alla filosofia, alla politica, all’economia, all’uomo ed al senso della vita, in linea con il modo di pensare e agire occidentale “per principio”, dando importanza alle ideologie, all’assoluto, al bianco o nero, rispetto alla maniera orientale, che pensa ed agisce “per circostanza”. Le pedine, i pedoni e pezzi della dama e degli scacchi come mezzi per raggiungere il fine, la pietra del go, nell’alternarsi di yin e yang, come parte del tutto.
La pratica del go permette quindi a comuni studenti o semplici giocatori di stimolare ed esercitare l’uso di entrambi gli emisferi cerebrali, l’uno logico-razionale (cioè sequenziale, analitico, deduttivo) e l’altro intuitivo-olistico (cioè sintetico, globalizzante, induttivo), sviluppando le naturali abilità logiche e creative.

– da AetnaNet del 30 Aprile 2012
– da Sotto Le 2 Torri – Il Foglio di Bologna n° 31 – Aprile 2012 – Pagina 18

Non Chiamateli Giochi: gli Scacchi

Tra i giochi tradizionali degni d’attenzione un posto d’onore lo meritano senz’altro gli Scacchi. Strettamente collegati alle diverse discipline scolastiche si sono facilmente inseriti, in tandem con la Dama, nell’iter formativo quali “sport a scuola”, offrendo a molti studenti occasioni di crescita umana e civile e di uso intelligente del tempo libero. È pressoché riconosciuto che chi pratica queste discipline acquisisce, in generale, maggiore capacità di concentrazione e potenzia senza sforzo le caratteristiche elaborative del cervello con notevoli effetti benefici anche in altri campi, come l’organizzazione del proprio lavoro o l’apprendimento delle materie scolastiche.
In un mondo sempre più globalizzato e tecnologico ma diviso dalla prospettiva dello scontro di civiltà, la natura trascendente del gioco degli scacchi mette insieme Oriente ed Occidente. Protagonista di una lunga staffetta tra popoli, l’origine del gioco è tuttora oggetto di studi e di controversie. Molti storici concordano che fosse conosciuto in India nel VI secolo d.C., sotto il nome di Chaturanga (quattro parti di un tutto): la scacchiera era già 8×8 ma si giocava in quattro, talvolta con i dadi, e non tutti i pezzi muovevano come oggi. Successivamente il gioco passò in Persia assumendo il nome di Chatrang, Gli Arabi lo appresero dai Persiani nel periodo della loro espansione e lo chiamarono Shatranj (dal persiano Shah, gioco dei “Re”). Con le invasioni moresche dell’Europa insulare e della Penisola Iberica, gli scacchi approdarono in Occidente tra il IX e il X secolo, diffondendosi intorno al Mille in tutta l’Europa, dapprima nelle corti, poi con la nascita dei primi giocatori professionisti. I religiosi furono grandi propagatori del gioco, nonostante tra il XII e il XV secolo alcuni concili cercarono di ostacolarne la diffusione. Il gioco attraverserà così tutta l’Età Moderna sino a giungere al primo torneo internazionale, organizzato da Howard Staunton a Londra nel 1851, e vinto dal tedesco Adolf Anderssen. Di lì a poco verrà organizzato il primo campionato del mondo, vinto nel 1886 da Wilhelm Steinitz: è l’inizio degli scacchi moderni.
Gli scacchi si giocano su una tavola quadrata, detta scacchiera, divisa in 64 case organizzate in 8 righe, dette traverse, ed 8 colonne. Ciascun giocatore dispone di un insieme di 16 pezzi, composto da (in ordine teorico di importanza crescente): i Pedoni (8), i Cavalli (2), gli Alfieri (2), le Torri (2), la Donna (1), il Re (1). Ogni pezzo si muove secondo precise modalità. Nessun pezzo può occupare una casa in cui è presente un altro dello stesso schieramento, è invece permesso catturare qualsiasi pezzo avversario, ad esclusione del re, occupandone la casa. Scopo degli scacchi è dare “scacco matto”, manovra che consiste nell’intrappolamento del re avversario: non essendo consentita la cattura del proprio re, quando lo stesso è minacciato (ovvero è “sotto scacco”) deve essere effettuata una mossa che pari la minaccia, ossia impedisca all’avversario di catturarlo alla mossa successiva; se il giocatore non può sottrarre il re dall’attacco si tratta di scacco matto e la partita termina con la vittoria dell’avversario.
Gli scacchi possiedono, oltre al naturale aspetto di competizione intellettuale, una precisa connotazione simbolica, frequentemente usata come metafora della vicenda umana. Il gioco è impregnato di simboli e metafore che da sempre hanno ispirato artisti, pittori e letterati. La celebre partita del cavaliere Block contro la Morte, descritta magistralmente dal regista svedese Ingmar Bergman ne Il Settimo Sigillo, ha un esito immodificabile ma ciò che conta non è l’impossibile vittoria finale bensì il gioco in sé, poiché finché la partita procede il cavaliere è vivo. Per Bergman, il succo della dignità umana non sta nell’aspettare passivamente che gli eventi accadano ma nell’opporvisi fermamente, sia pure in una lotta impari. In ambito politico, la Rivoluzione Russa ed il conseguente interessamento del Regime Bolscevico fecero la fortuna degli scacchi tra la prima e la seconda guerra mondiale. La Guerra Fredda consolidò questa fortuna: l’intero mondo divenne una scacchiera su cui le due superpotenze giocavano le loro mosse.
Diversamente dalla politica, nel mondo scolastico giochi come la dama o gli scacchi permettono agli studenti di sperimentare nuove strategie di apprendimento, gettando le basi di quelle che saranno le strutture del pensiero logico-deduttivo. La damiera/scacchiera costituisce un eccellente campo per far affrontare ai ragazzi attività di risoluzione di problemi e di costruzione di piani d’azione, tradizionali temi di interesse della scienza cognitiva, oltreché potenziale strumento per il recupero di soggetti con difficoltà di apprendimento. L’acquisizione delle rispettive tecniche di gioco concorre infatti alla formazione globale dell’individuo, stimolando la logica, l’immaginazione, la memorizzazione, l’attenzione e il pensiero analitico, nonché la creatività e la consapevolezza del giusto rapporto causa-effetto.
In una società sempre più proiettata verso l’uso delle nuove tecnologie diventa indispensabile la presenza di quei giochi tradizionali che “servono” per crescere, la cui promozione nelle scuole assume una doppia valenza: didattico-educativa e ludico-sportiva, proponendosi come rinnovato centro d’interesse per i più giovani.

– da AetnaNet del 2 Aprile 2012
– da Sotto Le 2 Torri – Il Foglio di Bologna n° 30 – Marzo 2012 – Pagine 28-29

Non Chiamateli Giochi: la Dama

La Dama è un gioco da tavolo tradizionale per due giocatori. La parola “Dama” proviene dal francese Dame per derivazione dal latino Domina, ed indica il “pezzo sovrano” e per estensione l’intero gioco. Le origini del gioco sono antichissime. Le ricerche archeologiche hanno confermato che già molti secoli prima dell’era cristiana esistevano giochi che utilizzavano tavola e pedine. Un completo di questo tipo di giochi (una tavola 3×6 con pedine rotonde), appartenente al periodo predinastico che termina nel 2900 a.C., è stato trovato in Egitto, nella città di El-Mahash.
I diversi pareri sull’esatta origine del gioco, però, sono discordanti. I giochi su tavola dell’antico Egitto sono stati spesso paragonati al gioco della dama, tuttavia non si è in grado di stabilire delle analogie fra l’antico gioco egiziano e quello della dama attuale. Alcuni ricercatori raccontano che sotto il nome di Petteia veniva giocato nell’antica Grecia; nel museo etrusco-gregoriano del Vaticano si trova un’anfora di Exekias (datata 530-525 a.C.) su cui sono raffigurati Achille ed Ajace seduti, mentre giocano. Altri studiosi fanno derivare la dama dal Ludus Latrunculorum della Roma di Cicerone; Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.) per primo menziona questo gioco.
Soltanto nel Medioevo la dama avrà modo di affermarsi. Apparsa nel secolo XI nel sud della Francia e diffusasi in tutto il territorio, nel XIII e XIV secolo ha proseguito la sua espansione nelle Fiandre e in Inghilterra, ove viene menzionata esattamente come Jeu de dame nel poema inglese “Sir Farumbras” del 1380, fino ad arrivare ai tempi moderni con la dama a sessantaquattro caselle che, seppur con regole diverse, si afferma in tutti i paesi.
La forma più diffusa, quella della “Dama Internazionale” a cento caselle, giocata con regole comuni in tutti i paesi e adottata dalla Federazione Mondiale (FMJD), venne ideata a Parigi agli inizi del 1700 con il nome di “Dama alla Polacca”; la sua prima descrizione si trova nella famosa “Enciclopedia” di Diderot del 1754.
In Italia il gioco della dama, pur conosciuto da tutti nella variante nazionale, è poco praticato e diffuso a macchia di leopardo. La versione internazionale (e la principale variante inglese) rimane pressoché sconosciuta, roba da addetti ai lavori, nonostante alcune nazioni l’abbiano ormai adottata integralmente. La dama, invece, è un gioco per tutte le età e per la semplicità delle regole e il naturale coinvolgimento nelle dinamiche di una partita è accessibile anche ai bambini; ha profonde tradizioni popolari, è ricco di fascino e di storia, un vero e proprio gioco transgenerazionale. In esso si fondono armoniosamente logica, intuito, velocità di analisi della mente, destrezza, memoria delle conoscenze e delle mosse, oltre all’estro personale. In quanto “Sport della Mente”, aiuta lo sviluppo sia di un’intelligenza logico-matematica, sia quella di tipo spaziale legata alla qualità della visualizzazione e dell’immaginazione, e infine l’intelligenza di tipo artistico.
Le principali differenze tra la dama italiana e la dama internazionale sono da ricercare nelle diverse damiere (a 64 caselle la prima, a 100 caselle la seconda), nel numero di pedine a disposizione ad inizio partita (12 per la versione italiana contro 20 per la versione internazionale), nel movimento e nella cattura dei pezzi avversari (nella versione internazionale la dama ha un movimento “lungo” simile all’alfiere negli scacchi e può effettuare prese multiple, le pedine pur muovendo solo in avanti possono catturare sia le dame che le pedine avversarie sia in avanti che indietro).
La dama Italiana è un gioco prevalentemente matematico, con analisi spinte in profondità. Per analisi si intende il prefigurarsi tutta una serie di mosse successive e le migliori risposte dell’avversario, spingendosi il più lontano possibile e con la massima precisione. La Dama Internazionale, invece, è un gioco più strategico, con analisi più allargate, ricco di combinazioni che sono funzionali alle linee strategiche. Resta immutato in entrambe le versioni lo scopo ultimo del gioco: catturare o bloccare per primi tutti i pezzi avversari.
La dama viene spesso accostata ai più celebri scacchi, ritenuta a torto inferiore rispetto al nobil giuoco. In realtà i due giochi non si possono paragonare. Nell’Ottocento Edgar Allan Poe cercò di spiegare nei Delitti della Rue Morgue questa distinzione, sostenendo come: «le superiori attitudini dell’intelletto riflessivo più chiaramente e con maggior pertinenza vengono messe alla prova dall’umile gioco di dama, che da tutta la vacua macchinosità degli scacchi». Per Poe, essendo il gioco degli scacchi molto più complesso della dama, a causa dei diversi movimenti dei pezzi, vince il giocatore che fa meno sviste, non dunque il giocatore più sottile bensì quello con la maggiore capacità di concentrazione, riconoscendo così alla dama una “purezza” intellettiva altrimenti sottovalutata.

– da AetnaNet del 2 Marzo 2012
– da Sotto Le 2 Torri – Il Foglio di Bologna n° 29 – Febbraio 2012 – Pagina 11